lunedì 10 aprile 2017

Il tempo | Pablo è vivo

Per me è passato solo un giorno. Al massimo due. Domani potrei sentire il citofono suonare, scendere e andare a scuola. O all’università. Non è cambiato niente, e invece è cambiato tutto: per molti è arrivato l’amore, il lavoro, il matrimonio, alcuni di voi hanno avuto anche dei figli. Non so se provo solo io questa sensazione di smarrimento; insomma, quello che voglio dire è: quanto dura davvero un anno? E dieci? E quindici?

Lo ripeto, per me non è cambiato niente. Nemmeno una virgola. Invece la Storia mi sta passando accanto e non me ne accorgo. Non me ne sto accorgendo, e questa cosa mi fa assai male perché ogni giorno mi ricordo di qualcosa o di qualcuno che non tornerà, che non mi verrà più a bussare: di una sensazione che prima c’era e ora non c’è più.  

Eppure, nonostante questo mio essere disattento verso il tempo che passa, non mette in discussione mai nemmeno una volta il mio sentirmi una persona sensibile e attenta…Ma posso davvero ancora farlo?

La Storia mi sta passando accanto e non me ne sto accorgendo, proprio come accade a Gep Gambardella. Capisco perfettamente la potenza di quella scena: se torno con la mente a tutte le cose successe mi ripeto che, semplicemente, non me ne sono accorto. Non me ne sono accorto ma, nonostante tutto, ogni volta quelle stesse cose mi hanno appassionato, divertito, terrorizzato; e solo io so quanto tempo è passato in un tempo che ora, anche a me stesso, sembra piccolo-piccolo-piccolo-piccolo. Insomma, per dirla con la Merini:

Devo liberarmi del tempo e vivere il presente giacché non esiste altro tempo che questo meraviglioso istante.

Io conto veramente di riuscire a farlo. E sicuramente anche voi.

martedì 28 luglio 2015

Due ragazzetti in macchina

Qualche giorno fa vado a fare un giro al parchetto a mezzanotte. Parcheggio la mia macchina accanto a una station wagon. Dentro ci sono un ragazzo e una ragazza, più meno di vent’anni, che parlano: lui, al lato guida, è appoggiato con la testa al finestrino chiuso per metà; ha un braccio sul volante e l’altro sullo schienale del sediolino; le gambe sono rivolte verso di lei che è seduta al lato passeggero e si dimena muovendo le braccia e toccandosi con una frequenza impressionante i capelli biondi.
Lei gli sta parlando di qualcosa d’importante; a un certo punto pronuncia una frase tipo “probabilmente sto sbagliando”, riesco ad ascoltare solo questo, nient’altro. In ogni caso stanno discutendo, accesamente, ma da innamorati; si capisce che quella discussione non mette in nessun modo in pericolo il loro rapporto. Mi piace un sacco quando le coppie litigano e discutono in questo modo; è una cosa che solo a guardarla mi dà sicurezza: è già una “promessa” è già un “per sempre”.

Non so bene qual è l’argomento che li fa perdere tempo con le parole invece, che ne so,
magari di passare quelle ore che hanno a disposizione per baciarsi. C’è sempre qualcosa che ruba il tempo ai baci, alle carezze, all’amore; a qualsiasi età.
Io resto fermo nella mia macchina e li guardo perché hanno un’aria familiare. E’ come se li conoscessi da sempre.
Lei è sicuramente più presa da quello che stanno vivendo: ho l’impressione che lotti di più, che si batta con più determinazione. Lui invece guarda spesso dritto in avanti anziché
fissarla negli occhi, si distrae e alza meno la voce. Riconosco ancora qualche sillaba che esce dalle loro bocche e che somiglia a qualche parola: “cambiare…ere…avevano…io…selo”. Ma, ovviamente, questi suoni, estrapolati così, non mi portano a nulla di concreto. Non capisco niente di quello che si stanno dicendo e la mia curiosità si accende ancora di più quando invano tento di mettere assieme pezzi di parole, frasi, lettere volanti e labiali. Cosa darei per farmi i fatti loro! Cosa darei per capire cosa si stanno dicendo! 

Continuo quindi a restare in macchina fingendo di giochicchiare con lo smartphone e di essere totalmente disinteressato ai loro argomenti mentre in realtà cerco di captare degli indizi. Perché questi due ragazzetti mi attirano? Perché hanno degli atteggiamenti che conosco così bene? Essendomi arreso al fatto di non sentire un cacchio, senza farmene accorgere, inizio a concentrarmi sui loro volti cercando di non fissarli quel tanto che basta
per mettergli paura. Lui, dalla mia postazione, lo vedo bene: è magro, molto figo, con poca barba e si sta per accendere una sigaretta. Di lei non riesco bene a descrivere nulla perché mi è di spalle. Noto però che gesticola parecchio e sento il suo tono di voce alzarsi di tanto in tanto ed entrare fin dentro la mia macchina, passando dal finestrino che tengo aperto per il caldo. Avere un tono di voce alto e gesticolare molto è una cosa che si dovrebbe sempre evitare di fare quando si ragiona con gli altri perché, anche se tutto quell’insieme di gesti e di parole urlate sono spesso solamente sintomi di un’insicurezza generata chissà da quali eventi passati, si dimostra aggressività e, l’aggressività, solitamente, distrugge più che costruire. Lei è agitata quindi, lui è tranquillo. Per un attimo questa cosa mi fa pensare che sia lei ad amare di più fra i due. Ma subito rifletto: “che sciocchezza!”. Lui poi fa tre tiri dalla sigaretta che si è nel frattempo acceso e subito la passa a lei che, a sua volta, dopo essersi gustata i suoi tre tiri, gliela ripassa. Tre tiri per uno…e così fino a bruciarla. E’ sempre una pessima idea dividersi la sigaretta in questo modo perché poi si consuma e la devi buttare prima del tempo. Ma sono ragazzi e piano piano impareranno.

Dopo pochi minuti sono dovuto uscire dalla macchina per incontrare un amico: una birra, qualche sigaretta e la notte è veramente arrivata. Quando sono tornato a riprendere l’auto, dopo due ore, la station wagon con i due ragazzi non c’era più. Ma io so come sono andate le cose dopo che me ne sono andato:


hanno continuato a parlare per un po', poi una canzone alla radio li ha distratti e l’hanno cantata a squarciagola dimenticando ogni cosa. Hanno fumato un altro paio di sigarette rubate ai genitori che non sanno che fumano. Lui ha calmato lei e le ha detto che stare in macchina in sua compagnia è come possedere una casa da abitare assieme. Lei è stata d’accordo. Qualche secondo dopo, un bacio ha spento le parole di entrambi che poi hanno aspettato ansiosi che i vetri si appannassero per fare l’amore stesi sul sedile posteriore. Subito dopo fatto l’amore hanno aperto tutti i finestrini e spalancato tutte le porte della macchina “perché se si vede qualcosa è brutto” e la mamma di lei l’ha telefonata pregandola di tornare a casa “perché si è veramente fatto tardi”. Nel rispondere la ragazza è stata più dolce e delicata del solito per il semplice motivo che, si sa, dopo un orgasmo, si sta sempre meglio e si è più gentili con tutti, anche con i genitori. Questo la mamma nemmeno lo immagina ma, ascoltando la voce della figlia così incredibilmente dolce e rilassata, si è sentita anche lei per un attimo più serena e ha chiuso la telefonata ricambiando involontariamente, come per riflesso, un saluto pieno di comprensione. Poi una piccola tappa al bar. Ancora un po’ assieme. Un altro bacio e “ci vediamo domani”. Arrivato a casa, lui, posando il cellulare sul comodino, ha trovato un sms con su scritto “sono felice che in questo mondo così grande NOI due ci siamo incontrati, notte”. E lui le ha subito risposto “Sono molto felice anch’io”. (Che meraviglia a volte la banalità!). Entrambi poi si sono lavati e, lavandosi, non hanno potuto fare a meno di ripensare al sesso. Una volta stesi, ognuno nel proprio letto, e lontani qualche chilometro di distanza, assieme si sono uniti in un pensiero triste che affiora ogni qual volta riusciamo ad assaggiare per un istante la felicità: la vita è lunga e tante cose possono accadere, anche le più brutte. In quel momento un brivido di terrore ha spezzato loro la schiena ed entrambi hanno desiderato ancora un abbraccio prima di addormentarsi.

mercoledì 1 luglio 2015

Il professore di italiano

Nel ristorante dove sto pranzando vedo il mio professore di Italiano delle scuole superiori che si accinge ad aprire il menu. Erano anni che non lo incontravo, che nemmeno lo incrociavo per strada. Abitiamo vicino ma in dieci anni l’avrò visto sì e no due volte. Certe cose non accadono, anche se è facile che possano accadere.
Sono molto emozionato, non so perché. Mi fa piacere rivederlo, voglio dirgli: “guardi prof. come mi sono fatto!”.
Lui è molto cambiato, anche se non è invecchiato ancora. E’ semplicemente cresciuto un po’. Anche io sono cresciuto. E anche tutti i miei compagni di classe.
Mentre mangio non faccio altro che pensare al momento in cui, passando accanto al suo tavolo, mi fermerò e gli dirò chi sono. Sarà sicuramente felice di vedermi. Accelero, cerco di finire la pizza il prima possibile per alzarmi, andare a pagare e fingere con lui un incontro fortuito. Mi dà fastidio interromperlo mentre discute accesamente con sua moglie; spero che passando di lì ci saranno baci e abbracci naturali. Che bravo professore che era. Anzi, che è!
A un certo punto noto che rivolgendosi sempre alla moglie fa un gesto con le mani che sta a indicare di andarsene. Non riesco ad afferrare precisamente quale sia il motivo della loro decisione di abbandonare il ristorante, dato che si erano appena seduti. Credo che pacatamente abbiano comunicato al cameriere che avevano troppa fretta e si erano probabilmente resi conto che c’era da aspettare parecchio. Quindi mi alzo e lo rincorro. Lo chiamo: ”professore, salve!”, poi mentre gli porgo la mano gli dico: “si ricorda chi sono?”. Lui balbetta, mi dà la mano; fa finta di farfugliare un cognome incomprensibile. Allora glielo ricordo io: “sono Morabito”. E lui mi risponde sorridendo: “sì, Morabito! Come stai?”. Però io so che sta fingendo; non si ricorda un cazzo! Non sa chi sono. Ma mente con stile. Sto per un attimo al gioco e gli ricordo che sono passati almeno dodici anni. Subito dopo mi chiede conferma della scuola che ho frequentato: “ma eri all’istituto B**ti. Gli dico di sì sorridendo mentre un po’ lo sto odiando. Poi continua: “sai che sono diventato preside dell’istituto B**nti?”. Gli rispondo che è una notizia favolosa e che sono felicissimo di questa cosa. Intanto penso che non è giusto, che doveva ricordarsi di me. E un po’ ci soffro perché come al solito finisci di diventare uno dei tanti. E’ sempre così, l’individualità per praticità si piega sempre a una categoria; e la categoria è sempre algida e poco rappresentativa di quello che siamo veramente. Nel frattempo lui mette il cappotto e se ne va dicendomi “in bocca al lupo per le tue cose”. “Crepi” gli rispondo, sputandogli in faccia il mio sorriso divenuto in un attimo politico e convenzionale. Intanto continuo a pensare che oltre a essere un alunno di quella scuola io ero IO ma questo probabilmente era e rimane solo una mia illusione.
“Era meglio non salutarlo” dico fra me e me. Ho anche strafogato in pochi minuti la pizza per niente e mi sto sentendo male. Allora mi risiedo, ordino un amaro e cerco di digerire.

Il mio professore di italiano è scappato via in pochi secondi e, senza quasi che me ne accorgessi, è tornato ad essere per me quello che era stato nell’ultimo decennio: uno sconosciuto. E penso che alla fine va bene così: chi mi credo di essere?

mercoledì 28 agosto 2013

Dopo la prima volta tutte le altre sono uguali

Sono le 7 di sera, il sole sta tramontando e Pablo si muove a fatica mentre prepara il caffè. Mi chiede se ne voglio un po' ma gli rispondo che l'ho appena preso al bar. Per un attimo questa cosa mi pare infastidirlo, poi si calma e si siede. Soffia nella tazza. Beve. Mi guarda. Muove le sopracciglia come fa ogni qual volta che vuole iniziare a parlarmi. Parlarmi di qualcosa di serio s'intende.
È un po' di tempo che non mi faccio una chiacchierata seria con Pablo. Ma l'inverno sicuramente ci darà la possibilità di stare assieme molto di più. Lui ed io. Soli. A volte con una bottiglia di vino, altre volte con una di jägermeister. Oggi, stranamente, con un caffè.

Dopo il primo sorso, come già sapevo, Pablo inizia a parlare:
"Nella mia vita mi sono sempre divertito a intuire, nel momento stesso che accadevano, quali erano 'le ultime volte'," mi dice. Porta il caffè alla bocca, sorseggia e completa il concetto dicendo:
"Intendo dire... ho sempre cercato di captare quel momento che accoglie l'ultima volta che vedi una donna, l'ultima volta che metti una maglia, oppure che ne so, l'ultima volta che vedi una casa a cui sei affezionato". 
È un'operazione per certi versi masochistica ma che denota una certa sensibilità che gli riconosco.
'Le prime volte' sono facili da ricordare, penso subito io, ha ragione, perché conservano un carattere di unicità che tutte le altre volte non hanno. Non saprei nemmeno spiegare il perché ma il primo bacio, il primo giorno di scuola, la prima volta che ho detto una parolaccia che mi sembrava più grande di me, la prima volta che ho dato uno schiaffo, la prima volta che sono andato a un funerale, la prima volta che ho mangiato con gusto una zuppa di cozze, la prima volta che ho fumato, la prima volta che sono andato allo stadio, la prima estate da solo con gli amici, sono tutti eventi che ricordo limpidamente.
Dopo la prima volta tutte le altre sono uguali. Ma 'la prima volta non si scorda mai'.
Sì. E va bene. Questo vale per 'le prime volte'. Ma le 'ultime volte' invece? Dove sono andate a finire? Non le ricordo. A parte qualcuna. Qualcuna proprio tragica che in verità sarebbe bene non ricordare. Le 'ultime volte', infatti, le ricordi solo se ti fanno stare malissimo.

Pablo mi racconta che quando era ragazzino erano soliti riunirsi, lui ed i suoi amici, a chiacchierare su una panchina che stava nella piazzetta del paese in provincia di Campobasso dove è nato. Quella panchina era stato il loro posto per tantissimi anni, dice. Quando si usciva di casa si andava lì perché oltre a quella panchina non c'era nulla da fare. Quella panchina era stata come una sala di attesa per Pablo penso io, ritornando con la mente alla mia esperienza personale e al posto in cui mi riunivo quando ero più piccolo con gli amici di allora, un limbo lungo gli anni che bastano per avere il coraggio di scoprire un mondo che però doveva attendere ancora un poco per vedere noi stessi protagonisti. 
In molti hanno avuto un posto del genere dove sfogare i primi discorsi e confessare le prime perversioni. Quindi, partendo dall'idea di quella panchina, non so perché, ma con un volo pindarico, la mia mente va al pensiero prezioso di tutte quelle prime volte che ho appena elencato ed immagino che a farle non ci sia io, ma lui. La vita è così tristemente uguale per tutti forse, deduco. Ed io immagino la vita di Pablo: pochi secondi dei miei pensieri per un'esistenza lunga e dispendiosa come la sua. 
Tornando a Bomba: mi dice che l'avevano personalizzata quella panchina. Era tutta imbrattata: nomi e cognomi dei 'proprietari', sfottò, adesivi, incisioni. Era la loro e ne facevano quel che volevano. Nessuno osava fiatare, nessuno ci si accostava. I vecchi dell'epoca nemmeno ci si avvicinavano.
"Massimo rispetto per i vecchi dell'epoca...," continua Pablo, "...ma sedersi lì, su quel metro e mezzo di gioventù, significava innescare un incidente diplomatico fra generazioni diverse".
Mi racconta poi di una sensazione:
"Siamo morti nel momento in cui siamo migrati da quella panchina".
Penso subito che questa affermazione è tanto poetica quanto forzata. Pablo non è morto. È qui dinanzi a me che ha appena finito il caffè. Ha avuto due mogli e tante altre donne; ha vissuto la guerra e si è goduto quella bellezza che sono stati gli anni '80. Ed è ancora vivo. Più di me. E allora glielo dico:
"Dai Pablo, non dire cazzate!"
Ma lui insiste e ripete tra sé:
"Qual è stata l'ultima volta che mi sono seduto lì?"
"Qual è stata l'ultima volta che mi sono seduto lì?"
"Qual è stata l'ultima volta che mi sono seduto lì?"
Noto che è entrato in una sorta di trans profonda, come se in questo momento l'unica cosa importante, l'ultimo motivo per continuare a vivere, sia ricordare quella cosa. Vorrei fargli notare che nulla può ricomparire, per destarlo e farlo tornare coi piedi per terra; le cose accadono, cambiano, ci cambiano. E non è sempre un male. Ma che ne posso sapere io di come si ragiona a 85 anni? Che ne posso mai sapere del tramonto della vita? Come faccio a immaginare in che misura ti possono far soffrire i bilanci che si fanno a una certa età? Vorrei dirgli che è solo un giorno pieno di nostalgia, forse perché l'estate sta finendo. Vorrei dirgli almeno di posare la tazza che ha fra le mani vuota di caffè perché, se continua a stringerla così, mentre cerca di ricordare, la può spaccare e tagliarsi. E non voglio che si faccia male. Vorrei fargli comprendere che, a suo modo, ha ancora una vita davanti. Ecco. Questo. Ci siamo noi, le parole e quel vino che tutte le sere ci scoliamo. Vorrei dirgli che quella panchina esiste ancora, che è lì nella sua casa, e sopra ci siamo seduti adesso lui ed io che parliamo.
Nonostante io non sappia cosa fare lo lascio pensare e mi accendo una sigaretta.
Pablo si sforza ma non riesce a ricordare. Ed è meglio così. 
Restiamo zitti per un'interminabile manciata di secondi e poi lui inizia pian piano a ritornare qui accanto a me da chissà quale mondo delle idee, appoggia la tazza sul tavolino che ci tiene compagnia e dice:
"Che bottiglia apriamo stasera?".  

venerdì 17 maggio 2013

Voglio fare il calciatore | Pablo è vivo


Oggi il pallone sembra più pesante del solito e c’è un sole che mi sta stordendo. Mi brucia qui, proprio in mezzo agli occhi. Giocare a calcio mi pare difficilissimo in questa calda domenica di maggio. La panchina dove siede il Mister (si fa per dire "siede") è situata solitamente in prossimità della linea del fallo laterale e, siccome faccio il terzino, ogni volta che giochiamo, per metà partita sono costretto a stare proprio sotto i suoi occhi. Lui urla in continuazione, con tutti. Oggi però ho l’impressione che lo faccia solo con me. Questa cosa mi dà un po' noia.

Intanto l’ala avversaria mi salta la prima volta: mi dribbla, mi supera in velocità e, quando pare che per un attimo io l’abbia raggiunta, mi sovrasta fisicamente.  Ecco, ora il Mister inizia di nuovo a gridare, lo so già. Se potesse ammazzarmi mi ammazzerebbe: “copriii!”; “fai la diagonaleee!”; “Morà non lo perdereee!”; “spingiii!”. Tutte queste urla mi entrano nel cervello come se fossero piccole picconate che centrano precisamente ogni neurone che mi appartiene. Il sole mi batte forte in testa ed io non so più che cazzo fare. Forse chiedo il cambio.
Prendiamo il primo gol. Poi il secondo. Il terzo è colpa mia. Lo so. Chiedo scusa a tutti. Ma il Mister se ne fotte delle mie scuse. E continua a gridare.
Intanto quelli corrono come i pazzi ed io arranco. Ma non è solo il sole. O forse sì, cioè spero di sì. Non lo so. Sono troppo forti comunque e non tocco più una palla. Sta di fatto che c’è qualcosa di strano in questa partita. Non mi sto divertendo. Non mi diverto più e ho la sensazione che questa giornata me la ricorderò per sempre. Voglio fare il calciatore, ma questa partita è un supplizio. Sto giocando malissimo e mi pare di non saper fare nemmeno più quelle cose che fino a ieri mi riuscivano facilmente. Non ce la faccio, non reggo più. Ho sete. Sete che mi berrei una coca ghiacciata. E voglio stendermi. Non so perché ma sento che questo è un momento importante per me. C’è qualcosa di strano in quello che sta accadendo. È la prima volta che mi succede, è la prima volta che provo questa sensazione. …Intanto ecco, prendiamo il quarto gol. Che squadra di merda che siamo! Oltre al Mister sento urlare anche i compagni di squadra e nella mia mente non c’è nient’altro che quella coca ghiacciata. Chiedo il cambio. Esco dal campo. Momento di felicità.

Vederli giocare da seduti in panca è tutta un’altra cosa. È bello vederli giocare. Se per un attimo riuscissi a dimenticarmi del caldo potrei anche divertirmi. Certi sono proprio fortissimi, qualcuno di loro ce la farà.
La partita finisce. Mi compro la coca, la bevo e me ne torno a casa.

martedì 16 aprile 2013

Immaginare un Nuovo Mondo



Dovremmo iniziare a pensare un Nuovo Mondo.
Bisogna riorganizzare tutto quello che l’uomo ha scoperto e conosciuto in migliaia di anni di storia. 
Si devono lasciar morire tutte le dottrine politiche e/o economiche che suonano ormai obsolete. Senza nostalgia; con una presa di coscienza finalmente seria. 
Abbandonare quindi l’idea di comunismo. E, sebbene oggi pare essere ancora il suo turno, anche quella di capitalismo. L'uomo non può continuare a modellare i suoi pensieri su questi sistemi socio-economici fallimentari; non può convivere con l'illusione e la speranza che, grazie a essi, si possa costruire, finalmente, una società più giusta. Perderebbe (e infatti continua a perdere) dal principio.
Probabilmente, al di là di queste dottrine, esistono territori inesplorati dai pensieri; Verità a un passo da noi che attendono da secoli il loro momento. 
Ancora una volta, le parole, in questo caso quelle che spiegano il comunismo e il capitalismo e che ne determinano poi la loro applicazione concreta, risultano essere la prigione delle potenzialità della nostra mente di immaginare congetture più complesse (o forse meno complesse) e di tendere a un’altra possibile costruzione del mondo.

Quello che dovremmo fare è pensare che l’uomo non è fatto per lavorare soltanto. Anzi. Non è fatto assolutamente per lavorare. 
In principio il lavoro era lo strumento che l’uomo aveva a disposizione per sfamarsi, coprirsi ed essere, a suo modo, “felice”. Oggi, il concetto di felicità, pare invece corrispondere sempre più all’identificazione in un Brand: siamo felici non più quando ci sfamiamo ma quando ci sentiamo parte di un immaginario condiviso da altre persone che, ad esempio, hanno in comune con noi la stessa passione per una marca particolare di cellulare. Ci sentiamo realizzati solo quando sfoggiamo la griffe di una multinazionale sugli indumenti che mettiamo addosso. Lavorare per questo tipo di felicità è un lavorare a vuoto; lavorare per qualcosa che non esiste. In verità, per vivere, non ci serve altro che una casa, un orto e la presenza delle poche persone che amiamo.
Il Mondo al quale siamo rilegati è una menzogna. E’ il frutto di un’incomprensibile voglia dell’uomo di autodistruggersi.

Abbandonare le dottrine politiche che negli ultimi 150 anni hanno alimentato le nostre anime quindi; ma a favore di cosa? In cosa dobbiamo credere? A quale utopia dobbiamo tendere? Su quali questioni dobbiamo interrogarci?
Sicuramente su noi stessi! Il punto cruciale di questo Nuovo Mondo deve essere l’Uomo; il suo vivere in armonia col resto della natura senza relegare la sua vita al solo lavoro.
L’espansione tecnologica non porta direttamente alla felicità. Migliora assolutamente il quotidiano. Non c’è dubbio. Lungi da me schierarmi contro lo sviluppo e la tecnica. Quello che dovremmo domandarci però è: “cosa stiamo sacrificando a favore di tutto questo?”; “esiste una connessione diretta fra felicità e progresso?”.


domenica 3 febbraio 2013

Riflessione dopo il partitone di Mario Balotelli

Andare a votare alle politiche, a questo punto, è diventata una battaglia generazionale.
Le persone nate negli anni 50 e negli anni 60, vale a dire la classe dirigente di oggi, hanno messo noi trent'enni in una pessima condizione esistenziale. E non parlo (solo) del lavoro che non c'è e dei miei amici laureati con lode costretti a faticare per pochi spiccioli; parlo del male di vivere con il quale tutti noi "ragazzi" (ma preferirei usare la parola "Uomini") facciamo i conti ogni giorno. 

Quella generazione, di cui fanno parte anche mio padre e molte delle persone che amo quanto la mia stessa vita, ha fatto degli errori madornali. Ha quasi sempre dato il voto alle persone sbagliate; non ha mai investito in fonti di energia alternative; si è ingrassata e ha mangiato sulle nostre spalle ancora prima che noi nascessimo.
Che non ci vengano più a dire che noi abbiamo avuto tutto! Questo non lo possiamo più accettare.
Ora tocca a noi. Votare. E votare bene.

martedì 11 dicembre 2012

La busta di latte



E’ uno di quei giorni in cui tutto va storto. Tenete presente quando capite di esservi alzati col piede sbagliato? Quando vi svegliate già stanchi perché avete sognato di scalare una montagna? Quando credete di centrare la tazza e invece vi state pisciando sui piedi?
Oggi è uno di quei giorni. Parte male e finisce peggio di solito.

Sono le 18 e 40, sto andando a lavoro, ho fatto tardi e devo ancora fare almeno 800 metri a piedi. Non sono pochi considerando che di solito sono già lì da 10 minuti. Inizio sempre alle 18e30.
Ad un certo punto mi sento chiamare da due donne che sono passate un attimo prima dinanzi a me proprio mentre mi dimenavo per il ritardo.
La voce che sento, è una voce debole, fioca. Talmente piccola che pare lontana. Addirittura per un attimo la ignoro credendo che cerchi attenzione altrove. Poi mi giro. Capisco che questa donna, e l’altra donna che sùbito riconosco come la figlia, ce l’hanno con me.
“Oh mio Dio” penso. E’ tardissimo. Qualsiasi cosa mi chiede le dico di no. Sicuro mi cerca soldi. Purtroppo non posso permettermi di dare i soldi a ogni semaforo e ad ogni incrocio. Tra l’altro io non verso per niente in ottime condizioni finanziarie e faccio pure un lavoro che non mi gratifica. Ho deciso: mi giro per educazione ma ho già un bel “no” secco in canna.
Rallento il passo e mi volto verso di loro, ma in quella posizione tipica che si assume quando si è pronti per riandare via: il piede destro già in ripartenza che mira dritto alla meta. Nel mio caso il posto dove lavoro.
“...Signore, posso chiederle una cosa?”. Mi giro. ...Ecco ora gli devo dire “no”. ...Niente.
“Mi dica”. Non ce l’ho fatta. Con questo “mi dica” mi ha già fregato. Ma è tardi. Davvero non posso perdere un altro secondo. E poi ho litigato praticamente con tutti oggi. Non voglio più nulla da questa giornata. Voglio solo andare a lavoro e poi metterci una pietra sopra. “Signore non voglio soldi…, una busta di la..”. “NO!!”. Ecco. Ce l’ho fatta. Me ne vado!
Mentre finisco di pronunciare quel “no”, e lo ripeto più volte ma sempre a volume più basso, comprendo e faccio attenzione anche al proseguo della frase: “..una busta di latte per mia figlia”.

Ecco, io lo so che chi chiede l'elemosina spesso ti racconta delle bugie. Sono anche bugie che, se vogliamo, possiamo considerare a fin di bene. Lo sappiamo, lo sanno tutti. Ma allora, se è così, non capisco perchè, mentre mi incammino, e mancano ormai solo 300 metri all'arrivo, non faccio altro che pensare a quello che mi ha appena chiesto quella donna. Non era poi così tanto per me. Alla fine potevo pure comprargliela sta benedetta busta di latte per la figlia…  Devo accelerare. Oddio che fiatone! Che ore sono? …Si, in realtà nella stragrande maggioranza dei casi è proprio così: chi ti chiede l'elemosina lo fa sempre per un motivo diverso da quello che ti racconta!Questa cosa mi fa vergognare di me stesso ogni volta che la penso ma è sicuramente così. Anche quella donna stava mentendo. Si. Non era di vitale importanza quella busta di latte. Ne sono sicuro. Si, si. Non mi pareva manco vestita malissimo ora che ci penso. Era solo una scusa affinchè io mi intenerissi e le dessi dei soldi. Magari anche di più di quello che può costare una busta di latte. 
Ma perchè proprio a me? Cioè voglio dire, su quel marciapiede c'erano tante persone che, almeno da come apparivano, potevano permettersi molta più beneficenza del sottoscritto. Deve avermi preso per uno ricco forse. Mhà, mi pare strano. ...Ahhh, eccooo:  mi ha semplicemente preso per uno che si intenerisce! E io non mi faccio intenerire! No! 
E’ stato sicuramente così. Chissà quanti soldi racimola ogni giorno. E io non ho abboccato. Meno male. 
Pochi metri. Ok, le 18 e 53; sono arrivato a lavoro. Ritardo record. E’ stata una serata tranquilla.